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Il mio diario di moda sostenibile – museling, certificazioni, greenwashing

Settimana 1

Io non nasco come blogger di moda sostenibile. Sto facendo un vero e proprio percorso (ad ostacoli) aiutata da qualche amica (meravigliosa), dalla mia esperienza in campo tessile (banalmente so cosa vogliono dire determinati termini) e da un po’ di buon senso. Ho pensato di condividere questo percorso con voi, perchè alcune mie scoperte possano diventare anche vostre e perchè tantissimi stimoli mi arrivano proprio da voi!

Da quando ho cominciato a documentarmi in prima persona sull’eticità e la sostenibiltà nella moda, mi sembra di aver scoperchiato un vaso di Pandora pieno delle peggio cose che si possano immaginare. Al di là della doccia fredda che è stata il film the True Cost ( che fino allo sfinimento continuerò a suggerirvi di guardare, e non basta il trailer, va guardato il film intero), ho scoperto l’esistenza anche di altre realtà truci o sconcertanti. Di seguito un po’ delle mie scoperte e dei miei pensieri in ordine sparso:

1. il Mulesing

Una cosa agghiacciante (andate a vedervi il link Wikipedia sul titolino qui in alto). Ora, io non sono nè vegetariana, nè vegana (e soprattutto questo non è un blog sul cibo), ma sapere che mi vesto con la lana di bestie che sono state fatte soffrire inutilmente, quando esistono altre possibilità… beh, anche no.

Il mio diario di moda sostenibile - museling, certificazioni, greenwashing
Fonte Google

2. le Certificazioni

Ecco quelle di cui ho capito qualcosa, cerco di spiegarlo in parole povere anche a voi:

  • SA8000: si stratta di una certificazione che attesta che un’azienda lavora in modo etico, senza sfruttare i propri lavoratori e coinvolge anche i subfornitori. Nel link a Wikipedia trovate tutto spiegato nel dettaglio.
  • OEKOTEX: è una certificazione che attesta che un prodotto non contiene sostanze nocive in nessuna sua parte (dal filato, ai bottoni, per dire). Non attesta che il prodotto sia realizzato con fibre organiche.
  • GOTS: è forse la certificazione più completa. Per ottenerla, un prodotto deve avere un filato organico al 70% e deve essere prodotto con metodi non impattanti sull’ambiente (vengono valutati ad esempio il dispendio di acqua ed energia impiegate nella produzione). In più, viene controllata anche la condizione dei lavoratori, che devono lavorare in ambienti salubri e con stipendi adeguati (solo per citare un paio di punti, se cliccate sul link trovate il dettaglio di tutto, interessante, leggetevelo).

MA… 

Ma, ragazzi, le certificazioni costano. E costano parecchio. Quindi, chi può permettersele? Aziende che hanno i soldi per pagarle. Fatevi due domande… Molto spesso marchi piccolini non hanno la possibilità di pagare certificazioni di questi tipo, ma il loro modo di lavorare è etico e sanno perfettamente da dove vengono i filati che impiegano (ad esempio scelgono lane provenienti dal Sudamerica anzichè dall’Australia, in cui viene praticato il mulesing).

3. il COtone organico

Fatevi una domanda: perchè un filato si definisce biologico o organico? Perchè le sementi stesse non sono OGM e, in teoria, viene rispettata la sua crescita naturale, quindi non viene trattato con pesticidi o fertilizzanti che ne velocizzino la crescita. Quindi, una pianta di cotone, per essere organica, deve poter crescere LENTAMENTE. E secondo voi i marchi fast fashion, con la quantità di magliette a €4,90 che sfornano ogni giorno hanno il tempo di aspettare che la pianta cresca come natura vorrebbe? Certo che no! Ma sull’etichetta scrivono organic cotton. Perchè? Mi sorge il dubbio che possano farlo perchè la normativa che regola il poter dichiarare i propri capi come realizzati in cotone biologico preveda una percentuale di cotone biologico molto piccola. Non si spiegherebbe altrimenti la cosa. Quindi, in realtà, ci vendono un cotono biologico che non ha nessun tipo di certificazione. Non sono riuscita a trovare il testo della normativa che regola il cotone organico, la sto ancora cercando. Se per caso qualcuno avesse lumi a riguardo, mi faccia sapere.

Il mio diario di moda sostenibile - museling, certificazioni, greenwashing
Fonte Google

4. il greenwashing

La definizione che da Wikipedia è:

Neologismo indicante la strategia di comunicazione di certe imprese, organizzazioni o istituzioni politiche finalizzata a costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale, allo scopo di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli effetti negativi per l’ambiente dovuti alle proprie attività o ai propri prodotti.

Ultimamente l’attenzione alla sostenibilità si sta facendo sempre più forte, quindi i grossi brand devono potersi mostrare al pubblico come aziende che hanno a cuore l’ambiente (nessuno che parli mai dei lavoratori però, eh? Ci avete fatto caso? Chissà come mai…….). Ecco quindi le campagne per il riciclo dei vestiti, della biancheria intima eccetera. Non so come la vedete voi, ma per me è un modo come un altro per vendersi… e per vendercela.

Il mio diario di moda sostenibile - museling, certificazioni, greenwashing
Fonte Google

E QUINDI?

Quindi sto cercando ancora di capirci qualcosa anch’io. Come vi anticipavo nell’articolo dedicato alla maglieria sostenibile, se si vuole risalire alla fonte del filato, è più facile farlo con i produttori più piccoli, le aziende più piccole, chi lavora handmade, che molto probabilmente sarà in grado di rispondervi direttamente circa la provenienza delle materie prime prime che utilizza.

Un’altra cosa che ho imparato a mie spese con lo scivolone fatto nelle stories di Instagram circa un brand low cost, è che non dovete farvi ingannare dal prezzo basso. Se un capo costa poco un motivo c’è. Su quella maglia che quando sarà in saldo costerà a voi €2, l’azienda ci avrà comunque guadagnato. A quanto l’avrà comprata quindi, alla fonte? Chi avrà pagato il prezzo che non stiamo pagando noi? In generale, il prezzo basso (troppo basso) è sempre un buon indicatore che c’è qualcosa che puzza: o la natura del tessuto (sintetico di pessima qualità, cotone colorato con tinture non certificate – mai comprato un paio di jeans che lascia il blu?), o le finiture di basso livello o lo sfruttamento della manodopera. 

Bene, ecco le mie scoperte di questa settimana. Se volete leggere ogni settimana questo mio diario sulla moda sostenibile, iscrivetevi al blog e vi arriverà la mail in inbox (trovate il bottone rosso su questa pagina).
Ci vediamo la settimana prossima, spero di aver capito qualcosa in più!

6 risposte

  1. Ciao Angela, mi piace e mi interessa molto ciò che scrivi.
    Sicuramente il prezzo basso è indice di sostenibilità inesistente. Ad ogni modo anche la moda non fast fa i suoi danni. Ho visto una puntata su Report in cui facevano vedere come spennavano le oche in allevamenti dell’Est Europa. Quei poveri animali sanguinano dopo essere stati psennati vivi. Una passata di disinfettante e se andava bene le piume ricrescevano, altrimenti l’animale moriva. E le piume servivano per riempire i piumini di un noto marchio che li paga a poco, forse 30€ a capo (se non meno) per poi rivenderlo a 1/2/3000€….
    È un piacere leggerti
    Grazie
    Sonia

    1. Ciao Sonia, grazie per il tuo commento. Ho visto quella puntata tremenda e ti suggerisco di guardare anche quella dedicata alle pellicce e alle loro presunte certificazioni… Agghiacciante. In realtà, il modo migliore per essere sicuri della sostenibilità ed eticità di un capo è quello di andare in cerca di brand piccoli e artigianali da cui è più facile risalire alla filiera, se non ci sono certificazioni. Un abbraccio

  2. Ciao Angela, d quando seguo il tuo dirio sostenibile prima di acquistare un capo guardo se l’azienda è etica a livello di sfruttamento lavorativo, però da questa mia ricerca mi è capitato di leggere articoli positivi su HM, che ha ricevuto anche dei premi a riguardo. Puoi verificare tu stessa e magari dirci cosa ne pensi? Non voglio avere una scusa per continuare ad acquistare HM, ma hanno spesso dei capi molto interessanti ed io sto evitando di acquistare sul loro sito per una questione di rispetto, come si dice nel libro che leggerò presto che consigli sulla fast fashion, “il prezzo che non paghiamo noi per un capo a basso costo lo ha pagato qualcun’altro al nostro posto” 🙁
    Ti posto un link tra i tanti, https://it.fashionnetwork.com/news/H-M-VF-Corp-e-L-Oreal-campioni-globali-di-sostenibilita,1073424.html#.XZhWBiXOM1I
    Poi tra le mie ricerche spicca per sostenibilità ed etica Esprit . Chiaramente le mie ricerche non sono dettagliate come le tue che magari telefoni nelle aziende e approfondisci quello che io semplicemente ho trovato in rete.
    Grazie mille per questo blog comunque molto utile.

    1. Ciao Mary, grazie per il tuo commento. Ecco quello che penso: H&M sta facendo grandi passi verso la sostenibilità, anche spinta dal fatto che… non ha più scelta: più le aziende sono grosse e più hanno gli occhi puntati addosso per quanto riguarda le loro politiche a tema sostenibilità. Il problema principale qui è che stiamo parlando di un colosso: trasformare completamente una produzione e farla diventare non solo sostenibile, ma anche etica, è un processo per cui ci vuole moltissimo tempo. Essere sostenibili vuol dire anche diminuire la produzione e alzarla qualitativamente, in modo che i pezzi durino di più e che lo spreco sia il minore possibile (pensa a quanti pezzi producono annualmente a livello globale)… il che riduce la quantità di capi che vengono acquistati dal pubblico. Quanto ci vorrà per una multinazionale simile ad arrivare a questo cambiamento? Non mi permetterei mai di condannare il fast fashion o chi lo acquista: dico solo “Fate attenzione a quello che acquistate in termini di tessuti e finiture e cercate di far durare quel capo il più possibile, a prescindere dal fatto che sia o meno fast fashion”.
      Esprit dal punto di vista della sostenibilità sembra a posto. Dovrei scrivere all’azienda per capire dove producono per verificare se sono anche un’azienda etica. Se vuoi puoi farlo anche tu! Nel caso, aggiornami 😉

  3. Grazie per la tua risposta. Io tra l’altro acquisto solitamente su yoox e lì da quqndo ho approfondito l’argomento vado a verificare ogni singol casa produttrice essendoci più brand.

    Ad HM mi ci sono ri avvicinata da poco tempo (quest’estate) e dopo i miei due ordini ho letto il tuo blog sostenibile e mi sono rattristita e sono subito andata ad informarmi.
    Posso dirti che in HM comunque ho comprato ancor prima che arrivasse in Italia, circa 20 anni fa quando ero appena una ragazzina, e posso dire che dopo 15 anni avevo ancora delle canotte con colori vivi e tessuti senza nemmeno un buco. Le ho date via perche’ non potevo piu’vederle 😉
    Oggi non saprei dirti perché appunto ho ricomprato da poco, ma capisco appieno il tuo discorso.

  4. Grazie, è sempre molto interessante leggere i tuoi articoli, e, devo dire che seguire i tuoi consigli dà soddisfazione, in tutti i sensi, sia per quanto riguarda la scelta degli abbinamenti, ma soprattutto per quanto riguarda le attenzioni che dobbiamo avere prima ancora di comprare.
    Grazie!!!!! Buona giornata!!

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