Chi si avvicina alla moda sostenibile, prima o poi sente parlare di greenwashing. Che cos’è? In questo post cercherò di darvi una spiegazione facile, come sempre senza cercare di convincere nessuno, ma con il solo obiettivo di farvi aprire gli occhi in modo che possiate avere da voi una maggiore comprensione e consapevolezza davanti ad un mondo complicato com’è quello della moda sostenibile.
Cos’è il greenwashing: spiegazione tecnica
Cito da Wikipedia: “Greenwashing è un neologismo indicante la strategia di comunicazione di certe imprese, organizzazioni o istituzioni politiche finalizzata a costruire un’immagine di sé ingannevolmente positiva sotto il profilo dell’impatto ambientale, allo scopo di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dagli effetti negativi per l’ambiente dovuti alle proprie attività o ai propri prodotti.”
Direi che la definizione di Wikipedia spiega alla perfezione il concetto. Io aggiungerei anche la questione etica, che spesso e volentieri viene saltata a piè pari: puoi avere il cotone bio migliore del mondo, ma se fai cucire le tue magliette ad una forza lavoro praticamente ridotta in schiavitù, tanto buono non sei. Detto questo, concretamente, come facciamo a capire se un’azienda lo sta attuando oppure no? Posto che è davvero difficile scoprire la verità dietro ad aziende grandi (e più sono grandi e più è difficile) , ecco qualche esempio pratico.
Cos’è il greenwashing: lo sbandieramento della sostenibilità
Come dicevo nel mio ultimo post dedicato alle aziende del lusso, la sostenibilità adesso è una moda. Tutte le aziende, grandi o piccole che siano, devono poter dire di essere in qualche modo sostenibili, per giustificare eventuali incrementi di prezzo per determinati prodotti oppure per attirare l’attenzione del consumatore. Occhio però: come ho già scritto altre volte, un’azienda o nasce sostenibile, quindi attenta a tutti i passaggi dal filato, al confezionamento, alle spedizioni, oppure convertirsi in corso d’opera verso la sostenibilità è molto complicato. Sarebbe anche da aprire una parentesi su cosa si intenda per sostenibilità (è un termine che si presta a moltissime interpretazioni!). Magari potrebbe essere l’oggetto del prossimo post!
Fioriscono le certificazioni
Ecco quindi che saltano fuori tutte le certificazioni e le collaborazioni con aziende che hanno un qualche bollino verde: certificazioni che riguardano i filati o partnership con onlus o simili. Ci sono anche aziende che si sono affiliate ad organismi che salvaguardano il lavoro in aree in cui notoriamente l’etica del lavoro è pressoché inesistente, come il Bangladesh, in modo da far percepire la produzione dei loro capi come etica. Però molto probabilmente non producono solo lì.
Ritiro dei capi a fronte di buoni acquisto
A questo punto io vi faccio una domanda, per farvi fare una riflessione: OK, i filati sono certificati. OK il lavoro è etico. Ma se un capo costa esageratamente poco, da qualche parte si sarà fatta economia. Probabilmente sulle finiture o sulla scelta del tessuto (un cotone di grammatura meno pesante, ad esempio, che quindi costa meno). O anche banalmente sulla sua realizzazione finale: il capo quindi non è stato progettato per durare, ma per essere dismesso dopo una, due stagioni, in modo che si possa acquistarne uno nuovo.
E magari gettare via quello vecchio, magari proprio riconsegnandolo all’azienda da cui l’abbiamo comprato, che lo riciclerà per fare qualcos’altro e a noi darà un buono per l’acquisto di capi nuovi. Alimentando in ogni caso il volume generale dei rifiuti. Moltiplicate i vostri capi eliminati dal cambio di stagione su scala mondiale: vi rendete conto del paradosso? Compriamo vestiti di scarsa qualità per poi smetterli e riciclarli. Non sarebbe meglio acquistare capi che non debbano essere gettati via perché le cuciture cedono o il tessuto si logora?
Attività collaterali (che non vi dicono nulla sul prodotto)
Attività per trovare fonti d’acqua in Africa, aperture di scuole nel terzo modo, partnership per salvare animali rari in zone remote del pianeta… tutto pregevole, ma non vi sta dicendo nulla su come vengono realizzati i capi, con che manodopera e con che tipo di filato. O ancora: una collezione realizzata con bottiglie di plastica riciclata e tolta dal mare è un ottimo inizio, ma questo non rende un brand sostenibile, soprattutto se magari per tutto il resto della produzione viene usato del banalissimo poliestere non riciclato, magari mescolato con il cotone, cosa che rende quel capo, una volta smesso, conferibile solo nel secco (e quindi non riciclabile).
Cos’è il greenwashing: come districarsi
Mi rendo conto che non sia facile capire immediatamente se un’azienda sta facendo greenwashing o no, anche perché 1. ne siamo bombardati, 2. molto spesso viene celato davvero bene. Io ammetto di esserci cascata diverse volte all’inizio del mio percorso verso la sostenibilità: un brand dichiarava che il cotone era certificato, quindi era sostenibile… sì, il filato. Ma magari la produzione non lo era e non era nemmeno etica.
Come fare quindi? Ecco qui i miei consigli. Vi racconto semplicemente quello che ho fatto io per evitare di prendere cantonate, finché non riuscivo a trovare il tempo per verificare sul web se quel determinato marchio me la stava raccontando oppure era davvero un marchio sostenibile:
- chiedetevi: questa cosa che mi stanno dicendo ha un qualche impatto sul prodotto finito? Esempio: se vengono aperte scuole in Africa, cosa c’entra con il capo che sto comprando, che magari è made in Cambogia o Bangladesh?
- guardate il prezzo: se il capo è in cotone bio (altra cosa su cui sarebbe da scrivere un post!), ma il prezzo finale è esageratamente basso, evidentemente i costi sono stati tagliati altrove, probabilmente sottopagando la manodopera.
- ricordatevi: una collezione sostenibile (o definita come tale), NON rende un brand sostenibile.
- evitate tutti i casi che vi ho citato nel corso del post. Sono attività che le aziende emettono in bella mostra proprio per distrarvi.
- In generale, e non mi stancherò mai di ripeterlo, comprate MENO. Chiedetevi se davvero quello che state acquistando è indispensabile. Se tutti comprassimo con più testa e avessimo più cura dei nostri capi, come dice giustamente la mia amica Chiara di My wander coffee, una vera esperta di slow living e moda sostenibile, probabilmente potremmo tranquillamente acquistare anche nel fast fashion. Il volume globale della richiesta e quindi della produzione (posta comunque una maggiore attenzione alla forza lavoro) in questo modo si ridurrebbe drasticamente.
2 risposte
Argomento molto interessante, anche se immagino che documentarsi su queste cose sia piuttosto complicato….Sicuramente i tuoi consigl sono molto preziosi e ne farò tesoro, comunque ultimamente il mio “mantra” è: se compro forse sbaglio, ma se non compro non sbaglio di sicuro…
Esatto, parole sante! Dovrebbe essere un mantra per tanta più gente…