Probabilmente chi non è interessato la tema della sostenibilità cestinerà questo post senza nemmeno leggerlo, ma io lo scrivo lo stesso, nella speranza di trasmettervi perché questa settimana è così importante per il mondo della moda: ecco una spiegazione facile su cos’è la fashion revolution week.
Premessa
La fashion revolution week non ha a che fare solo con la moda sostenibile, ma anche e soprattutto con la moda etica. È per questo che è nato il movimento Fashion Revolution, il cui operato è strettamente connesso ovviamente anche ad un consumo più sostenibile della moda. Sono dell’idea che ci siano delle cose che debbano essere portate il più possibile a conoscenza delle masse, perché solo se le masse cambiano il loro comportamento allora ci sarà una speranza di cambiare qualcosa.
Se certe informazioni restano unicamente di nicchia, verranno sempre considerate come “roba da invasati, da fissati, da sfigati”. Bene, io non credo di essere nessuna delle tre cose. Ed ecco il motivo per cui scrivo questo post, perché sono certa che se anche voi sapete, allora anche voi potete prendere una decisione. Esattamente com’è successo a me.
Fashion revolution week: cos’è?
Si tratta di una settimana dedicata interamente alla sensibilizzazione sui temi della moda etica e sostenibile, organizzata dall’associazione no profit Fashion Revolution, fondata tra gli altri, da Orsola De Castro. Perché è nata questa organizzazione? Perché nel 2013 a Savar, in Bangladesh, è crollato il Rana Plaza, una “fabbrica” (il virgolettato lo capite guardando la foto sotto), che ha sepolto più di mille persone. E voi potreste dirmi: e quindi? Crollano edifici ovunque nel mondo. La cosa che fa accapponare la pelle è che questo crollo ha sepolto delle persone (uomini, donne, mamme con figli piccoli) che stavano cucendo vestiti per grandi aziende del fast fashion. Aziende che avrebbero rivenduto quei capi a cifre bassissime, guadagnando sulla pelle di chi lavorava per loro. E questa è solo la punta dell’iceberg.
Fashion revolution week: apriamo gli occhi
Non voglio tediarvi con frasi fatte e retorica e non voglio chiedervi di fare nulla di cui non siete convinti. Per questo vi dico solo una cosa: guardate il docufilm “The true cost”. Adesso che siamo tutti a casa e abbiamo un sacco di tempo a disposizione, guardatelo. A me ha cambiato la vita e non lo dico per dire.
L’ho guardato una sera, per curiosità. Dalla mattina dopo, il mio approccio nei confronti della moda è cambiato, radicalmente. Da quel momento ho deciso che avrei fatto tutto quello che avrei potuto, nel mio piccolo, per trasmettere informazioni utili per far cambiare idea a più persone possibile. Vi lascio qui il trailer del docu film, così potete farvi un’idea.
Fashion revolution week: qualcosa si muove
Non so se avete avuto modo di leggere la meravigliosa lettera che ha scritto Giorgio Armani, pubblicata anche sul Corriere della Sera. Non potrei essere più d’accordo con ogni singola parola. Il mio augurio è che il mondo del lusso faccia da traino al cambiamento dell’approccio che abbiamo nei confronti del consumo della moda, facendoci tornare a 20, 30 anni fa, quando si acquistava per necessità, due volte l’anno e si aveva cura dei propri vestiti, quando si rammendavano i buchi e si riattaccavano i bottoni, perché i vestiti erano preziosi, perché, appunto, dovevano durare.
Attività di sensibilizzazione
La sensibilizzazione per fortuna sta dando i suoi frutti e anche in Italia c’è qualcosa che si muove. Da poco su Sky/Now TV è andata in onda una miniserie dal titolo “Junk – Armadi Pieni” che altro non è che la versione in italiano e molto più approfondita del docufilm “The True Cost” (trovate tutto su Youtube). Junk, realizzato da Matteo Ward insieme a Sky e a Will Italia, parte dalla fine che fanno i nostri vestiti: noi li mettiamo nel bidone giallo e pensiamo di donarli, oppure li conferiamo alle aziende di fast fashion che li recuperano a fronte di buoni acquisto (nient’altro che greenwashing). La realtà è che centinaia di migliaia di tonnellate di vestiti stanno letteralmente intasando il Ghana o il deserto di Atacama, in Cile. Qui in occidente, noi non vediamo, noi non sappiamo, noi non facciamo nulla. Bene, adesso possiamo vedere: vogliamo anche fare qualcosa?
Il Movimento per la Moda Responsabile
Il Movimento per la Moda Responsabile è il primo progetto interamente italiano promotore di un Manifesto per la Moda Responsabile. Questa iniziativa mette insieme oltre 20 realtà tra professionisti, brand, cooperative e aziende, molte delle quali conosco personalmente (Rifò, SeeME, Progetto Quid, Womsh, Vesti la Natura solo per citarne alcune), con il sostegno di tante altre sempre del settore (che sono perfino diventate amiche nel tempo, come CasaGIN, Atotus, o con cui ho collaborato, come Par.Co Denim o CoStile, sempre per fare solo qualche nome). Si tratta di realtà che operano nel settore moda sostenibile, e che vogliono portare avanti azioni concrete che possiamo fare tutti insieme per provare a cambiare l’industria moda nel nostro Paese.
Per concludere
La fashion revolution week si incentra in particolar modo sul dramma etico in cui è invischiato il sistema moda. Possiamo cambiare, ed è molto più facile di quello che pensiamo (io cerco di portarvi il più possibile esempi pratici). Non è giusto che altri paghino con la vita il prezzo che non paghiamo noi per i nostri vestiti. L’immagine qui sotto è stata quella che più mi ha scioccato di tutto il docu film “The true cost”. Questa è schiavitù e se, pur sapendo che questo succede, non facciamo niente e continuiamo a comportarci come abbiamo sempre fatto, siamo complici anche noi.
13 risposte
Cara Angela, come forse ho già ascritto altre volte, ho lavorato per moltissimi anni nel mondo della moda e conosco abbastanza bene le realtà a cui fai riferimento. Purtroppo negli ultimi anni si è sempre più diffusa la moda “usa e getta”: cose di scarsissimo valore, senza un progetto, realizzate al minor costo possibile, con materiali di pessima qualità. Si sono moltiplicate le “stagioni” e ogni collezione nuova che esce cancella la precedente; l’ultimo colore di moda fa apparire vecchio quello che era di moda solo il mese scorso. E’ un meccanismo perverso, una corsa a comprare continuamente cose nuove, ma di nessun valore. Non è certo questa la sede per analizzare le leve sociali e culturali sulle quali si basa questo meccanismo, ma sono assolutamente d’accordo nel pensare che sia necessario fermarlo. Per chi lavora nel settore, per l’ambiente, per il consumo di risorse, per tutti. Per interrompere questa catena, l’unica strada è quella di un consumo consapevole, che ritrovi il piacere della qualità: il poco che dura molto e che riconosce a chi lo produce il giusto compenso. E’ un atteggiamento a cui dobbiamo tornare come consumatori.
Non ho visto il film che ci suggerisci, ma sicuramente lo farò.
Grazie Claudia, come sempre un commento ponderato e intelligente! Sono d’accordo con te su tutta la linea. Guarda The true cost e prepara lo stomaco, anche se sai già cosa c’è dietro al mondo della moda ti assicuro che è un film che stende…
“Roba da invasati, da fissati, da sfigati”. Purtroppo invece la critica che mi sento opporre più spesso è “roba da ricchi”.
È difficile convincere le ragazze e le mamme a fare un investimento spendendo 50 euro invece di 10 per un articolo. La gente è egoista ?
Ma a parte questo, non è sempre vero! Acquistare sostenibile significa anche acquistare second hand, che non è affatto costoso, oppure vintage, che ha costi decisamente accessibili, se non si cercano le firme, entrambe soluzioni testate di persona! E poi vogliamo parlare del bello di vestirci con capi unici?
Non potrei essere più d’accordo.
Vorrei avere le abilità comunicative di certi divulgatori per spiegare questo concetto, proprio con i numeri alla mano (tipo “spiegone” della sostenibilità).
Colgo l’occasione per dirti che sì, il seme del cambiamento ce lo avevo da tempo, ma la tua guida mi ha fatto fare il “salto” e mi ha dato consapevolezza; ormai sei il mio faro della moda sostenibile.
Grazie Teresa, davvero, mi emoziono! Mi piacerebbe mettere insieme un post con qualche dato numerico, devo fare un lavoro di ricerca (che ho già iniziato a dir la verità, ma mi devo mettere a organizzare il materiale…). spero di aggiornarti presto!
Cara Angela, anche a me tu hai dato la scossa su questo argomento.
sono molto più consapevole grazie alle tue informazioni
non compravo volentieri il fast fashion per una questione più che altro di qualità, e dovendo far quadrare il bilancio familiare ho acquistato molto meno negli ultimi anni, ma certo quello che c’è dietro è ben più grave e non si può più ignorare questa realtà abberrante.
grazie grazie grazie
Stefania
Cara Stefania, grazie a te della tua attenzione! Un abbraccio!
Cara Angela, sono un medico di 55 anni, radiologo, mamma di 4 figli ( anzi figlie, tutte femmine!!!) . La mia famiglia numerosa, mi ha sempre indotta a recuperare il possibile per adattarlo alla figlia più piccola. Provengo da una famiglia, anch’ essa numerosa” in cui il riutilizzo era la parola d ordine. Ritengo che la ” politica” dell’ attenzione a quello che compriamo e come lo utilizziamo debba essere una filosofia di vita. Ma, ahimè , mi confronto quotidianamente con una realtà dell’ usa e getta, per cui veramente ritengo di essere ” un caso isolato”. A prescindere da questa considerazione , ritengo che tutto quanto ho letto, da te scritto, sia corretto e sacrosanto per noi e le nostre famiglie.
Cara Tiziana, grazie per il tuo messaggio! Capisco la tua frustrazione, soprattutto considerando la tua bravura e la tua attenzione, ma non credere di essere sola: siamo un piccolo popolo di persone che ha a cuore la salute del pianeta e di chi ci vive: fatti forte di questo e avanti tutta sempre! un abbraccio
Io ho 35 anni e una sola sorella, più grande di sette anni. Ho sempre portato i suoi vecchi vestiti, che magari erano stati della cugina di mia madre. Azzarderei che il cambiamento sia stato davvero molto recente ed è assurdo, considerato che al momento ci sono molte più informazioni di quante ne fossero disponibili negli anni ’90
Hai ragione, il cambiamento è relativamente recente e il tracollo è stato nell’ultima decina di anni, complice purtroppo anche internet e soprattutto i social network con tutta la platea degli influencers. Per fortuna adesso c’è un po’ un cambio di tendenza e sempre più influencers sono diventati anche divulgatori e cercano di sensibilizzare verso pratiche più sostenibili, etiche e intelligenti, sia verso il pianeta che verso chi lo abita!
Grazie, del articolo molto interessante.
Oltre alle aziende, che vengono elencate nell’articolo, sarebbe interessante conoscere il contenuto etico, di alcune aziende come Benetton, Tezenis ecc, in modo da potersi orientare in un acquisto consapevole.